venerdì 6 gennaio 2017

Il GGG: la magia onirica del cinema




Inauguriamo la sezione consigli con la recensione di un film: Il GGG – Il Grande Gigante Gentile, l’ultima pellicola del premio Oscar Steven Spielberg, tratto dall’omonimo romanzo di Roald Dahl.

Il regista aveva dichiarato a Cannes di aver letto più volte Il GGG ai figli e di essersi reso conto che «quella storia conteneva due valori in cui ho sempre creduto: la capacità di superare le differenze e la mancanza di cinismo». La storia di Dahl sicuramente avrà affascinato il creatore di E.T. l’extraterrestre, film con cui condivide il ruolo centrale e positivo dell’infanzia e la fiducia nella fantasia, la cui forza permette di vincere le difficoltà del reale. Insomma la favola del gigante offriva a Spielberg la possibilità di far rivivere le atmosfere incantate del più famoso extraterrestre del cinema, prendendosi al contempo una pausa dalle recenti produzioni più realistiche e più impegnative dal punto di vista della ricostruzione storica. Inoltre i figli di Spielberg – e forse Spielberg stesso – vedevano proprio in lui un gigante gentile: il lavoro del GGG – soffiare ogni notte nei bimbi i sogni catturati durante il giorno – ricorda il ruolo del regista che, con le sue pellicole, realizza la magia del cinema, permettendo a tutti noi di sognare un po’.

La trama è nota. Durante una delle sue oniriche scorrerie notturne il gigante (adattato tramite performing capture sul volto di Mark Rylance, i cui occhi sempre velati di malinconia sono, a mio avviso, una delle cose migliori del film) viene sorpreso da Sophie (Ruby Barnhill), orfana dodicenne che soffre di insonnia: il GGG è costretto a rapirla e a portarla nella Terra dei Giganti, tutti feroci cannibali ghiotti di bambini, ad eccezione del vegetariano e sottosviluppato gigante gentile. Tra i due “diversi”, la bambina orfana e il gigante emarginato, entrambi soli, nasce inevitabilmente un’amicizia: i due progettano e mettono in atto un piano per isolare gli altri giganti ed evitare nuove sparizioni di bambini. È proprio sul finale che Spielberg dà il meglio di sé, restando fedele sia allo svolgimento del romanzo sia alle fantasiose trovate (anche linguistiche) di Dahl e, al contempo, sottolineando il parallelismo – cui si è già accennato – tra l’attività del gigante soffiatore di sogni e quella creativa del regista che può far vivere sogni ad occhi aperti. Il capovolgimento di prospettiva finale instilla nello spettatore il dubbio che la favola, vissuta tanto dalla piccola protagonista quanto da lui, non sia stata altro che un sogno: realtà e finzione diventano indistinguibili, il sogno si fa reale e il reale si fa sogno.

Tuttavia Spielberg non riesce fino in fondo fare propri temi, situazioni e personaggi di Roald Dahl, restando fin troppo fedele al romanzo, senza aggiungere nulla di personale, ovvero senza quel quid di invenzione in più che ci si aspetterebbe da un regista del suo calibro. Le invenzioni più divertenti sono opera della penna del romanziere inglese: una su tutte il finale folle alla corte della Regina di Inghilterra (Penolope Wilton), che sperimenta il piacere nuovo e trasgressivo dei “petocchi”, strappando una risata anche agli adulti, senza scadere nella più banale volgarità.
Purtroppo Spielberg non riesce a cogliere la vera natura dell’opera di Dahl, un «manuale di sopravvivenza nel mondo adulto», come è stata definita da Donald Sturrock: i giganti altro non sono che adulti, incapaci di ascoltare, capire e rispettare le ragioni dei più piccoli. Il regista non riesce a ricreare l'incantesimo di E.T., che come invece era riuscito a fare proprio con E.T., che aveva stregato il mondo intero con la sua delicata e magica poesia dell’infanzia.

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