giovedì 19 gennaio 2017

L'imprevedibile viaggio di Harold Fry

"Aveva imparato che era la piccolezza della gente a riempirlo di meraviglia e tenerezza, e anche la solitudine. Il mondo era fatto di persone che mettevano un piede davanti all'altro, e una vita poteva sembrare banale solo perché chi la viveva lo faceva da tanto tempo"



Un cammino di espiazione.
Un amore sepolto e riscoperto.
Un tuffo coraggioso e inaspettato nella vita.

Questi gli ingredienti de L’imprevedibile viaggio di Harold Fry, pubblicato nel 2012 in Italia da Sperling & Kupfer  Non si tratta certamente di un capolavoro della letteratura contemporanea né di un romanzo di grido. Più che gridare, sussurra. Dolcemente. Il protagonista, un uomo di mezza età in pensione «sbarbato a puntino», con «la camicia sempre immacolata e la cravatta» ispira sin dalle prime pagine un’infinita tenerezza. Intrappolato nell’abitudine e soffocato dalla scarsa fiducia in se stesso e nelle proprie capacità, trascorre le sue giornate seduto sulla poltrona o in giardino a tagliare l’erba. Ma la routine, così rassicurante e allo stesso tempo immobilizzante, è destinata inevitabilmente a frantumarsi contro la tempesta della vita, che irrompe come un fiume in piena.

Una lettera di un’amica mai davvero dimenticata fa riemergere con prepotenza un antico rimorso sommerso. La notizia di una morte imminente diventa così lampo di vita. E Harold comincia a camminare, e camminare, per chilometri, dal Sud al Nord dell’Inghilterra, indossando un paio di scarpe da vela, nella speranza che il proprio sacrificio sia un motivo sufficiente per lottare contro la malattia terminale.
 Il suo è un modo alquanto insolito di provare a guarire qualcuno. Non so come le sia venuto in mente. Forse, però, è proprio quello di cui ha bisogno il mondo. Un po’ meno ragione, e un po’ più fede.

E il cammino è fatica. La fatica è scoperta. Scoperta dei propri limiti ma anche della propria forza, inaspettata. Scoperta di emozioni e ricordi che affiorano nella solitudine. Scoperta della bellezza del contatto dei piedi con la terra, degli occhi con il cielo.
Scoperta degli uomini e delle fragilità che si nascondono sotto ogni volto.
È soprattutto la riscoperta di un amore coniugale da troppo tempo sepolto sotto le macerie di una tragedia famigliare consumatasi tempo prima e rivelata solo nel finale. Il muro eretto dalle parole non dette, dai rimproveri sibilati, dalla rabbia repressa crolla piano piano. E Harold ricomincia o forse comincia per la prima volta a vivere, ad amarsi e perdonarsi, come figlio, come marito e come padre.
Un romanzo delicato, mai sfacciato o troppo drammatico. Mantiene un ritmo sommesso e gradevole.
Rachel Joyce però non riesce a raggiungere l’eccellenza nella narrazione. Alcune figure e alcuni snodi della trama risultano troppo affrettati o semplicistici. L’autrice avrebbe potuto soffermarsi nel delineare con uno spessore maggiore i tratti dei personaggi incontrati da Harold nel suo cammino, puntando sulla qualità e non sulla quantità. Ma la bellezza della trama e l’affetto che si prova per il protagonista riescono a compensare queste mancanze. Senza dubbio una lettura consigliata.

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