Un cammino di espiazione.
Un amore sepolto e riscoperto.
Un tuffo coraggioso e inaspettato nella vita.
Un tuffo coraggioso e inaspettato nella vita.
Questi gli ingredienti de L’imprevedibile viaggio di Harold Fry, pubblicato nel 2012 in Italia da Sperling & Kupfer Non si tratta certamente di un
capolavoro della letteratura contemporanea né di un romanzo di grido. Più che gridare, sussurra. Dolcemente.
Il protagonista, un uomo di mezza età in pensione «sbarbato a puntino»,
con «la
camicia sempre immacolata e la cravatta» ispira sin dalle prime pagine un’infinita
tenerezza. Intrappolato nell’abitudine e soffocato dalla scarsa fiducia in
se stesso e nelle proprie capacità, trascorre le sue giornate seduto sulla
poltrona o in giardino a tagliare l’erba. Ma la routine, così rassicurante e
allo stesso tempo immobilizzante, è destinata inevitabilmente a frantumarsi
contro la tempesta della vita, che irrompe come un fiume in piena.
Una lettera di un’amica mai
davvero dimenticata fa riemergere con prepotenza un antico rimorso sommerso. La
notizia di una morte imminente diventa così lampo di vita. E Harold comincia a
camminare, e camminare, per chilometri, dal Sud al Nord dell’Inghilterra, indossando
un paio di scarpe da vela, nella speranza che il proprio sacrificio sia un
motivo sufficiente per lottare contro la malattia terminale.
Il suo è un modo alquanto insolito di provare
a guarire qualcuno. Non so come le sia venuto in mente. Forse, però, è proprio
quello di cui ha bisogno il mondo. Un po’ meno ragione, e un po’ più fede.
E il cammino è fatica. La fatica
è scoperta. Scoperta dei propri limiti ma anche della propria forza,
inaspettata. Scoperta di emozioni e ricordi che affiorano nella solitudine. Scoperta
della bellezza del contatto dei piedi con la terra, degli occhi con il cielo.
Scoperta
degli uomini e delle fragilità che si nascondono sotto ogni volto.
È soprattutto la riscoperta di un
amore coniugale da troppo tempo sepolto sotto le macerie di una tragedia
famigliare consumatasi tempo prima e rivelata solo nel finale. Il muro eretto
dalle parole non dette, dai rimproveri sibilati, dalla rabbia repressa crolla
piano piano. E Harold ricomincia o forse comincia per la prima volta a vivere,
ad amarsi e perdonarsi, come figlio, come marito e come padre.
Un romanzo delicato, mai
sfacciato o troppo drammatico. Mantiene un ritmo sommesso e gradevole.
Rachel Joyce però non riesce a
raggiungere l’eccellenza nella narrazione. Alcune figure e alcuni snodi della
trama risultano troppo affrettati o semplicistici. L’autrice avrebbe potuto soffermarsi
nel delineare con uno spessore maggiore i tratti dei personaggi incontrati da
Harold nel suo cammino, puntando sulla qualità e non sulla quantità. Ma la bellezza della trama e l’affetto
che si prova per il protagonista riescono a compensare queste mancanze. Senza dubbio
una lettura consigliata.
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