martedì 17 ottobre 2017

Ci si abitua a tutto?


Ci si abitua a tutto, alla fine



È il mio tormentone del momento.
Nel senso letterale del termine però. Un tormento.
Ho sempre usato questo slogan quando mi ergevo a super consigliera e volevo rasserenare animi disperati con l'evergreen intramontabile "Il tempo cura le ferite, non preoccuparti ti ci abituerai". E poi col cavolo che ti ci abitui ma va bene lo stesso. Le ferite rimarginano col tempo ma basta una distrazione perché salti la cucitura e inizi a sanguinare. È un attimo. Ma questa è un'altra storia.

Torniamo alla frase. Alla fine ci si abitua a tutto.
L'abitudine, ecco.


Un'abitudine è rassicurante. Nella mia mente immaginavo la parola ABITUDINE come una specie di casa accogliente al ritorno dopo ogni giornata. Con annessi e connessi. La cena, la chiacchiera, le notizie alla tv o sul quotidiano, il pigiama, la copertina in plaid, il libro, l'abat-jour, una coccola se è la nostra sera fortunata, la nanna. Più o meno questi i tasselli. Più o meno in questo ordine. I gesti di quando tutto scorre placido e regolare.
L’abitudine, ecco.

Ma da qualche tempo è avvenuta la metamorfosi del senso della parola nella mia mente. Una metamorfosi che al confronto l'Asino d’oro di Apuleio può solo sbiancare e arruginire.
L’Abitudine si è trasformata in una specie di Giano bifronte, avete presente?


Solo che invece di guardare al passato e al futuro, la mia Abitudine osserva il presente, giorno dopo giorno, in due direzioni. 
Mi spiego meglio.

Da una parte l’abitudine guarda indifferente verso le cose brutte, le cose che fanno male. Dal caffè bruciato dei bar di Milano, al glifosato sui limoni che compro, ai colleghi che amici-amici ma mors-tua-vita-mea rimane il tacito accordo di ogni relazione lavorativa e sta bene così, a chi scrive “non ti fai mai sentire” tutte le volte che si fa sentire, agli inciuci all’italiana che tanto “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” e già lo sapevamo. Ci si abitua a tutto e si finisce con il pensare che sia la normalità. Abbiamo anestetizzato il pensiero e il nostro senso di umanità per pigrizia, per comodità?

Dall’altra parte l’abitudine guarda, quasi assopita, le cose belle. Et voilà.. l’incredibile leggerezza con cui diamo per scontate le piccole perle che ci circondano e che quasi finiscono per venirci a noia. I pomeriggi che assapori lentamente e raramente seduta al sole con un bel libro tra le mani, il bacio morbido del buongiorno ogni mattina, la telefonata trafelata dell’amica, le apprensioni della mamma, i pranzi preparati dalla nonna che ti vede sempre troppo magra anche quando i fianchi non passano più dalla porta, i quadri con i colori di Chagall. A volte troppo pesanti, troppo zuccherosi. Scontati. No? E toc toc. Bussa l’abitudine e la monotonia. E quindi finisci per non vedere quasi più le bellezze per quello che sono. Sbiadiscono come le tende al sole.

Mi domando se sia inevitabile o se ci sia una qualche forma di speranza. Sono troppo giovane e troppo poco esperta per propendere per la prima opzione. Punto tutto sulla speranza. Un po’ come rischiare sullo 0 alla roulette.



Allora riporto l’abitudine al suo originario significato. L’habitus. Il vestito che indosso ogni giorno cucito ad hoc sulle mie misure. 
La sua trama i miei valori, i suoi ricami i miei ideali.
E forse non sarà proprio in linea con le cinque tendenze streetstyle elencate da Chiara Ferragni ma dovrà essere ben riconoscibile. Unicità da non far sbiadire con la pioggia della “normalità”. Un abito mio da indossare sempre. 
L’Abitudine, ecco.

venerdì 30 giugno 2017

Virgin Mountain: di come l'amore insegna a vivere



Da qualche anno, almeno a partire dal capolavoro di Tomas Alfredson Lasciami entrare (2009), il cinema nordico ci ha abituato a storie che con che tenera delicatezza ci raccontano di diversità e di esclusione, di forzata solitudine e di faticosa integrazione.

Sullo stesso filone di sussurrata sofferenza e bisbigliata poesia si colloca anche l'islandese Virgin Mountain di Dagur Kári, che vede protagonista il quarantatreenne Fúsi, un inserviente aeroportuale impacciato e sovrappeso: la sua vita scorre monotona e inutile a casa della madre dispotica, tra le crudeli prese in giro dei colleghi, solitarie serate in macchina girando a vuoto e ricostruzioni in miniatura delle più famose battaglie storiche, finché non avviene un incontro che cambierà radicalmente abitudini, inclinazioni e sentimenti del gigante buono. Alla fine di una lezione di ballo country, Fúsi si imbatte in Sjofn una "spazzina depressa", come lui incapace di stare al mondo: le due solitudini si incrociano, si conoscono e provano a migliorarsi l'un l'altra, ma sarà solo Fúsi, alla fine, a cambiare nel profondo, scoprendo un nuovo universo di possibilità, dagli amici al bricolage, dalla cucina al ballo. Le stesse delusioni infertegli, seppur involontariamente, dalla instabile Sjofn diventano, come in ogni fiaba che si rispetti, occasione di crescita e miglioramento per Fúsi, che si scopre più forte del previsto e che si rivelerà capace di un amore cristologico che nulla chiede in cambio, che tutto ha da dare e che porge l'altra guancia: l'ultimo, definitivo rifiuto dell'amata diviene per il gigantesco protagonista spinta al miglioramento e stimolo alla scoperta e alla vita.

Un film toccante, che insegna come, anche da adulti, si possa ancora crescere e imparare grazie all'affetto, alla tenacia e alla forza morale.

venerdì 16 giugno 2017

Se mi inviti, io festeggio!



Tanto disprezzo l'idea di percorrere la navata di bianco vestita, quanto adoro essere invitata ai matrimoni.
Parliamone ragazze, non esiste occasione migliore per sfoggiare mise altrimenti immettibili, dall'abito in seta rosa ai tacchi Jimmy Choo, dai guantini in pizzo che scansati Madonna degli anni d'oro ai fascinator che Kate Middleton può accompagnare solo.
Lasciate perdere l'ipocrisia di condividere il giorno più bello della loro vita con gli sposi (anche perché non è il giorno più bello della loro vita, come ho già detto).

Un matrimonio è l'occasione per sentirsi fighe come sul red carpet, e per rimorchiare la qualsiasi, altro che tinder, once, happn. Se avete un briciolo di cervello berrete il giusto per essere un po' brille ma non messe, insomma capaci di intendere e di volere, ma contemporaneamente coi freni inibitori a briglie sciolte: puntate, flirtate, ballate e SBAM! Magari rimarrete comunque single a vita (che schifo non fa mai), ma anche una sana bottarella non ha mai ucciso nessuno.
Se in più il fotografo è bravo, pure un mezzo book gratis vi potete scroccare, che così fighe non lo sarete mai, a meno che non rientrate nella categoria donne magiche, ma questa è tutta un'altra storia.
Per non parlare poi di quei matrimoni con la band figa o il dj set: ballare fino allo sfinimento con gli amici più cari, urlando "LE NOTTI NON FINISCOOOOONOOOO", è un piacere che, a mio modestissimo parere, non ha prezzo.
E concludiamo con una chicca: certi matrimoni sono così trash, che ciao Real Time ciao. Sono quelli che mi danno più soddisfazione: dopo aver visto un chihuahua di fucsia bardato portare le fedi all'altare, credo di averle viste tutte (e ringrazio ogni giorno per aver assistito alla scena). Questi sono i momenti magici per cui vale la pena vivere.
Insomma. Sposatevi. E Fatelo per me

venerdì 9 giugno 2017

Sì lo voglio. Ma poi... perché?


Prima o poi ce lo chiediamo tutte: perché sposarsi?
Certo l'abito bianco da principessa potrebbe essere un valido argomento di dibattito. Per non parlare del profumo dei fiori d'arancio e della solennità della marcia di Mendelssohn.
Ma... sarà sufficiente?

Anche se non tutte lo ammettono ad alta voce, l'amore da favola rimane un sogno. Nel cassetto. Chiuso. Così serrato che ci siamo dimenticate dove abbiamo lasciato le chiavi per aprirlo, questo cassetto.
Perché?
- le cose belle fanno paura;
- le cose belle richiedono sacrificio e fatica; 
- le cose più belle implicano il coinvolgimento di altre persone che non possiamo controllare ma solo amare.
- le cose belle, quando vengono a mancare, lasciano una ferita.

Aggiungiamo alla lista una buona dose di pessimismo alimentata dai fallimenti che ci circondano. Sembrano dirci che nulla duri.
Se prima il matrimonio era un vincolo da dover stringere per avere un riconoscimento sociale e per poter lasciare la casa dei genitori, oggi è solo una scelta.
Una scelta molto costosa, tra le altre cose.

E così si opta per la convivenza. Meno rischi, meno impegno, meno fatica.
C'è solo un piccolo intoppo, più o meno implicito.
La convivenza ci autorizza a mettere in conto il fallimento. La vocina sommessa dentro di noi ci dice piano: "Viviamo insieme e ci amiamo sì, finché dura". 
Se poi non va almeno ci abbiamo tentato, è che proprio non ha funzionato. Caratteri troppo diversi. 

Mi sembra come andare a giocare una finale sapendo di perdere, come prepararsi ad un colloquio convinti che prenderanno il solito raccomandato. Manca la motivazione. La sfida. Il rischio.
È la logica a cui ci hanno abituato negli ultimi 30 anni. Consuma veloce ciò che ti piace senza aspettare, cambia veloce ciò che non ti piace più, non appena affiorano nuovi desideri. E di desideri siamo letteralmente bombardate ogni giorno. Sotto assedio.
Le cose nuove sono facili da ottenere.Le cose vecchie difficili da riparare, non valgono più la pena.

Non sto dicendo che tutte le convivenze falliscano. Conosco coppie che non si sono mai sposate perché non condividono il valore del matrimonio e sono l'esempio vivente dell'amore.

Per spiegarmi meglio devo giocare a carte scoperte. Io vi parlo da credente. 
E quindi rispondo alla domanda principale: perché sposarsi?
L'amore ai miei occhi è l'incontro di un Tu con un altro Tu che spazza via quell'inquietudine che abbiamo e che cerchiamo di riempire da sempre. Ma due Tu soli non bastano.
La nascita di una famiglia in fondo è un po' come una mini-Creazione (qui rasento l'eresia, me ne rendo conto). Grandiosa e difficile. I progetti grandiosi richiedono sforzi altrettanto grandiosi. 
E per questo essere in due non basta. Il Sì sull'altare è un invito a Dio ad entrare a far parte di questa unione. Un'unione che è qualcosa di diverso e di più grande di due singoli Tu. Un'unione che mette in atto quell'Amore presente solo in potenza. È questo il caso in cui si sfidano le logiche matematiche, in cui 1+1 non fa 2.
Fa di più. Molto di più. 

Il pianeta Terra mi chiama e quindi termino qui il mio volo icarico (che non sono sicura esista come aggettivo ma ha reso l'idea). Se volete una visione meno smielata vi consiglio la lettura della controparte:Felici Ma trimoni

venerdì 19 maggio 2017

Felici ma trimoni




No. Purtroppo l’idea geniale del titolo non è mia ma di uno dei miei dei della musica, idolo indiscusso e capello spaziale, Caparezza, già sul pezzo nell’ormai lontano 2006 quando si chiedeva: Ma perché vi coniugate, a che serve? Mica siete dei verbi”.
Esatto, perché? No, davvero, spiegatemelo voi perché io, da sola, proprio non ci arrivo. Perché, arrivati ai trent’anni, sentite lo spasmodico bisogno di convolare a nozze, più o meno giuste, mentre io sento lo spasmodico bisogno di ingollarmi serie su Netflix come se non ci fosse un domani? Perché i miei amici si sposano e figliano, mentre la mia conquista più grande è non lasciare l’acqua del thè sul fuoco finché non è evaporata tutta?
Ecco, ora, io lo so che anche in me c’è qualcosa di sbagliato, che sono immatura, scettica e anarchica e l’idea di firmare un contratto che mi lega a un’altra persona per tutta la vita mi toglie il fiato, che scansati record del mondo di apnea.
Io lo so che morirò cincischiando, perché in fondo sono pigra e cinica e non sono proprio due virtù che ti spingono a cogliere l’attimo, svegliandoti all’aurora come canta il caro Guccini.
IO SO.
E, pay attention, non giudico e non critico quelli che si sposano, eh. Contenti voi, contenti tutti. Vorrei capire perché lo fate. Dimentichiamoci il mio agnosticismo, virato all’ateismo, che a me cazzomene di essere sposata davanti agli occhi di Dio; tralasciamo il fatto che si sposano Fedez e la Ferragni, e già questo dovrebbe essere un ottimo deterrente all’idea di indossare l’abito bianco; togliamoci di torno anche il mio mantra “l’amore è eterno finché dura”, grazie al quale sono sopravvissuta finora, districandomi tra cocenti delusioni che al confronto il rigore di Baggio è una ventata di aria fresca. E cambiamo domanda: perché dovete ridurre l’amore a un misero contratto? Nel mio mondo, tetro e sconsolato con un tocco di melò e romanticismo becero, l’amore è un dono quotidiano, da dare e ricevere, senza costrizioni. L’amore è scelta di ogni giorno e come tale deve restare. Perché, parliamoci chiaro: finito l’entusiasmo del corteggiamento e del limone duro, dell’innamoramento e del sesso spaziale, si sceglie di amare qualcuno liberamente, senza che sia un contratto a imporcelo.

Ho detto la mia. Tolgo il pentolino del thè, che altrimenti mi evapora l’acqua.

venerdì 12 maggio 2017

Come fare bene l'amore


Un titolo così è impegnativo, lo so.
Sì, perché il post ha più probabilità di essere letto
E io ho più probabilità di deludere i lettori.
Come lo so? La dimostrazione sei proprio tu, lettore occasionale, che sei arrivato fino a qui sperando di trovare consigli su come migliorare la tua prestazione sessuale.
E io come previsto ti deluderò, forse.

La prestazione e l'ansia da prestazione. Ma perché?
Io mi rivolgo soprattutto a te, lettrice donna. Tu sai che il sesso non è che sia sempre così travolgente come ci raccontiamo. E in fondo la mia controparte nera qui sotto non ha tutti i torti. Quante volte hai già finto un piacere inesistente per compiacere un partner inconsistente?

L'annosa quaestio: il sesso sembra essere l'unità di misura del nostro valore.
O protese a rendere soddisfatto un partner che altrimenti si stufa e ci abbandona in autogrill per una teenager in shorts e calze a rete. O smaniose e bisognose di conferme e allora collezioniamo animali da serata la cui performance spesso non rasenta nemmeno la sufficienza.
La verità è che così facciamo la fine degli scendiletti, calpestati dagli altri e da noi stesse.

So cosa stai pensando a questo punto. Ecco la solita bigotta perbenista. Non ti contraddirò. Però attualmente mi sento rivoluzionaria nel mio pensiero.
Abbiamo sdoganato tutto lo sdoganabile, abbiamo inneggiato alla libertà sessuale, abbiamo distrutto il pudore etichettandolo come "sfigato". Ma cosa è seguito alla distruzione?
E tu... ci hai guadagnato?
1. Se la risposta è sì premi "indietro" e ritieniti fortunata, stai vivendo nella consapevolezza di te e ne sei felice.
2. Se la risposta è no domandati: come posso evitare che il sesso mi renda schiava? Perché è così, io sono schiava delle aspettative degli altri, schiava degli apprezzamenti e dei doppisensi, schiava della pubblicità di "Intimissimi" che tappezza la città e mi fa sentire un acaro intimidito sotto il letto al confronto.

Ecco, allora forse abbiamo bisogno di qualcuno che ci insegni a fare l'amore. Crearlo letteralmente. L'amore è quando hai trovato una scintilla di te in un'altra persona e allora hai deciso di fermarti li. Di tirare fuori il tuo meglio. Di coltivare quella "cosa" che ti fa intuire un qualche segreto sull'eternità, che ti fa sospettare un senso .
E quando ami il corpo dell'altro ti sembra il David di Donatello. Perfetto.
Riconosci il profumo della pelle e lo cerchi sul cuscino nelle assenze.
Sai a memoria il profilo e lo disegni ad occhi chiusi.

Così fare l'amore diventa splendido. Quando è un inno al corpo dell'amato. Quando è una musica che fa risuonare i tuoi sentimenti.
Così non può stancare mai. Cosi non servono le "Cinquanta sfumature" per tenere viva la passione.
E poi.. trova qualcuno che ti guardi come Botticelli con la sua Venere. Fidati, da qualche parte c'è.


venerdì 28 aprile 2017

Donne magiche: chi sono e come riconoscerle


Io mi chiedo come facciano certe donne ad essere sempre, e sottolineo sempre (ci scommetto, anche dopo un travaglio di 24 ore), perfette. Sono magiche. Quando le incrocio sulla 90 o sul 14 (sarà lì che si riuniscono), vorrei afferrarle per le spalle, guardarle dritto negli occhi e urlare: “COME FAI? COME FAI AD AVERE LA PIEGA CHE NON SI INCRESPA, CHE È LA STAGIONE DEI MONSONI E C’È UN’UMIDITÀ CHE NEMMENO ALL’EQUATORE?!”. Voi no? Perché, parliamone ragazze, certe donne sono di un’altra categoria, che io ammiro e invidio, perché – come già anticipato – sono magiche.

Innanzitutto, alle donne magiche il trucco non cola e non sbava mai. In discoteca, limone duro con il più figo della festa, e il loro rossetto rimane impeccabile, il mio si spande fin sotto il mento – e il tizio che mi son fatta non era neppure un granché. Per non parlare del loro contorno occhi che non cola di un millimetro nemmeno dopo che han fatto le 5 del mattino in pista, mentre io sono ridotta stile panda piangente già dopo dieci minuti di (non) ballo. Dei loro capelli ho già parlato, quindi andiamo oltre, con buona pace della loro messainpiega sempre a livello Aldo Coppola.

Non paghe di sminuirci sul trucco, le donne magiche ci sminuiscono anche sul vestiario. Ovviamente sono più fashion di Chiara Ferragni e, se le vedesse Enzo Miccio, non potrebbe far altro che complimentarsi, perché sono in grado anche di anticipare a lanciare tendenze. Io sono certa che il verde petrolio, colore must have per l'autunnoinverno 2017/2018, sia stato inventato da una donna magica, e che già lo indossa adesso, perché io non ho idea di che cosa sia il verde petrolio e soprattutto sono sicura che se lo indossassi sembrerei una di Ragazze Interrotte (e di certo non la Rider). Per non parlare delle loro calze che, più sottili della carta velina e più morbide della carta igienica Scottex, non sono mai smagliate, mentre io non faccio in tempo a uscire di casa che il mio gatto mi ha già tirato un filo o la calza mi si è impigliata nell’unica microscopica scheggia della sedia.

E poi c’è, ovviamente, la loro pelle che risplende e non mostra la minima imperfezione, nemmeno un minuscolo poro dilatato. Non ho ancora capito quali prodotti – cosmetici o intrugli che siano – utilizzino le donne magiche; probabilmente pozioni di pipì di pipistrello e dente di zanzara, perché a me, puntualmente, prima di un appuntamento, da qualche parte spunta un brufolo orrendo, che nemmeno il più salino dei dentifrici può riassorbire, il più potente dei Topexan sconfiggere e il miglior correttore nascondere (e sfido chiunque ad affrontare un appuntamento in tale condizione).
L’ultimo indizio che vi fa capire che una donna è magica è lo smalto, che ricopre unghie perfette, né troppo lunghe (che sarebbe volgare) né troppo corte (che sarebbe trascurato). Non è mai sbeccato o scheggiato, non lascia mai scoperta la parte iniziale dell’unghia ed è comunque più lucido di quello di noi babbane. Io ci ho provato con tutta me stessa, ma avere lo smalto come il loro richiede la precisione e la pazienza di un amanuense di Chiaravalle, ore e ore trascorse china a dare strati su strati con infaticabile perizia, e poi comunque dopo tre giorni (massimo) mi si sbecca, e allora mi parte un vaffanculo e lascio perdere.
Però almeno, con estremo amore e massima cura, sono riuscita ad avere le unghie della lunghezza giusta, della lunghezza magica.


Ah no, me ne si è rotta una l’altro ieri. È quasi magia, stronza.